Il SIGNORE ti benedica e ti protegga!
Il SIGNORE faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio!
Il SIGNORE rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace! (Numeri 6:24-26)

Chiesa Evangelica Valdese

UNIONE DELLE CHIESE METODISTE E VALDESI

Rimini, Romagna e Pesaro-Urbino

Ezechiele 2 e 3: 1-3 - in Occasione della Giornata della Libertà (17 febbraio 1848) - Past. Lothar Vogel

Care sorelle e cari fratelli,

 

furono tempi inquieti, tra ansie e la disperata fiducia nelle proprie forze, quelli in cui visse il profeta Ezechiele. Il libro dell’Antico Testamento a lui ascritto riporta tutti gli annunci e tutti i richiami da lui pronunciati prima e poco dopo la presa di Gerusalemme da parte dei babilonesi nel 587 a.C., che era la grande sconfitta che avrebbe posto fine al regno davidico. Nei primi capitoli del libro, il ruolo profetico di Ezechiele viene ricondotto a una sua visione, in cui si ritrova alla presenza della gloria di Dio e dove gli parla una voce che lo incarica, ed è tratto da questa visione il testo che oggi ci è proposto per la predicazione. Leggo dal libro di Ezechiele, cap. 2, tutti versetti, e cap. 3, vv. 1-3:

 

“1 [La voce] mi disse: «Figlio d'uomo, àlzati in piedi, io ti parlerò». 2 Mentre egli mi parlava, lo Spirito entrò in me e mi fece alzare in piedi; io udii colui che mi parlava. 3 Egli mi disse: «Figlio d'uomo, io ti mando ai figli d'Israele, a nazioni ribelli, che si sono ribellate a me; essi e i loro padri si sono rivoltati contro di me fino a questo giorno. 4 A questi figli dalla faccia dura e dal cuore ostinato io ti mando. Tu dirai loro: "Così parla il Signore, DIO". 5 Sia che ti ascoltino o non ti ascoltino, poiché sono una casa ribelle, essi sapranno che c'è un profeta in mezzo a loro. 6 Tu, figlio d'uomo, non aver paura di loro, né delle loro parole, poiché tu stai in mezzo a ortiche e spine, abiti fra gli scorpioni; non aver paura delle loro parole, non ti sgomentare davanti a loro, poiché sono una famiglia di ribelli. 7 Ma tu riferirai loro le mie parole, sia che ti ascoltino o non ti ascoltino, poiché sono ribelli. 8 Tu, figlio d'uomo, ascolta ciò che ti dico; non essere ribelle come questa famiglia di ribelli; apri la bocca e mangia ciò che ti do». 9 Io guardai, ed ecco una mano stava stesa verso di me, la quale teneva il rotolo di un libro; 10 lo srotolò davanti a me; era scritto di dentro e di fuori, e conteneva lamentazioni, gemiti e guai. III 1 Egli mi disse: «Figlio d'uomo, mangia ciò che trovi; mangia questo rotolo, e va' e parla alla casa d'Israele». 2 Io aprii la bocca, ed egli mi fece mangiare quel rotolo. 3 Mi disse: «Figlio d'uomo, nùtriti il ventre e riempiti le viscere di questo rotolo che ti do». Io lo mangiai, e in bocca mi fu dolce come del miele.”

 

Care sorelle e cari fratelli,

non è un’aria buona, quella che tira nel momento in cui Ezechiele sperimenta la sua chiamata al ministero profetico. Già qualche anno prima, i babilonesi hanno preso Gerusalemme per la prima volta, insediando un re a loro gradito, e da tutte le parti si sente la crisi del mondo che c’è, si sente che qualcosa sta per cambiare profondamente e questo fa paura. Quello che finora contava, non è detto che conterà anche in futuro; quello che era certo fino a oggi, non è detto che sarà una base su cui costruire il futuro. Di fronte a questo senso in qualche modo diffuso e poco afferrabile di crisi, la gente reagisce con attitudini e comportamenti diversi, a seconda del carattere. Anzitutto, ci sono i “ribelli” di cui parla quella voce che investe Ezechiele del suo ministero: sono ribelli non tanto contro le autorità stabilite in terra ma contro Dio. A livello caratteriale, sono persone “dalla faccia dura e dal cuore ostinato”. La loro ribellione è dunque definita come chiusura mentale. Di fronte alla crisi, alla luce di cambiamenti imminenti, si sono ritirate sulle forze proprie, hanno chiuso i canali della compassione e della solidarietà, non dànno più segni di benevolenza e di misericordia, oppure di elementare umanità. Sperano di salvarsi da soli e per farlo sono disposti a svalutare, a disprezzare, sì, ad annientare chi viene loro scomodo e che reca loro fastidio. Con durezza, si mettono a difendere a spada tratta il proprio orto, il proprio guscio, e guai a chi a loro si avvicina in cerca di aiuto!

            A quest’attitudine è contrapposta un’altra, ed è quella che il profeta neonominato è incaricato di diffondere. L’alternativa non è, però, di dire: “non è così grave, andrà tutto bene, passerà, non ti preoccupare!”. Il profeta non è invitato dalla voce divina a sminuire la gravità della crisi o a elargire delle consolazioni. Al contrario: deve annunciare, come sta scritto in quel rotolo che gli viene sottoposto, “lamentazioni, gemiti e guai”. Non è esattamente un annuncio simpatico quello di cui Ezechiele viene incaricato, a prima vista è una cosa da pessimisti, da feticisti della sofferenza. Secondo me, però, vale la pena pensarci su una seconda volta: la rivelazione che il profeta ottiene non ha nulla di “trascendente”, nulla di staccato dalla realtà. Al contrario: questa rivelazione dischiude ed esprime semplicemente ciò che è nell’aria, lo porta dall’inconscio rimosso alla consapevolezza. Tutti sentono la crisi di un mondo e di una condizione di vita in fase di estinzione, tutti sentono che le cose non possono andare avanti come prima, e il profeta, incaricato dall’alto, ha il compito di dirlo a chiare lettere, invece di favorire la rimozione, l’ostinazione e l’indurimento, che poi giustificano la durezza, l’indifferenza, la violenza.

Mi sembra questo il motivo per cui un annuncio di lamentazioni e di guai, se veramente ingoiato, cioè pienamente accettato, possa avere una sua dolcezza, come dice il nostro testo. Poiché chi si rende conto e accetta come siano passeggere, sottoposte a caducità, le sicurezze che ci possiamo costruire in autonomia acquisisce una nuova libertà di vedere le cose, di valutare le proprie capacità, di percepire il prossimo e la prossima con i loro bisogni, di superare quella disperata condizione in cui difendiamo soltanto il nostro guscio. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con una giustificazione delle sofferenze, ma ci vuole restituire un senso della realtà che viviamo. In questo senso il messaggio lasciato da Ezechiele, per quanto a prima vista possa apparire come cupo e pessimista, è un messaggio incoraggiante, toccante, uno in grado di ristabilire la socialità e la convivenza. Ci vuole forse uno spirito particolare per vivere la sensibilità e l’apertura mentale proprio nella coscienza della propria crisi? Può darsi, è comunque uno spirito particolare che consente a Ezechiele ad alzarsi per ascoltare quella voce. Lo stesso, magari, varrà anche per noi.

            Oggi, il giorno prima del 17 febbraio, in cui ricordiamo un passaggio importante nell’evoluzione della libertà e del pluralismo religioso in Italia, il messaggio di Ezechiele orienta l’attenzione verso i fenomeni di ostinazione identitaria e di cuori impietriti che riscontriamo nella nostra società. Ci siamo oramai abituati che nel momento in cui si nota l’avaria di un barcone sul Mediterraneo la discussione pubblica si concentri non sulla necessità impellente di salvare le vite umane in pericolo ma su questioni di principio. A volte pongono magari qualche elemento non sbagliato in sé (tipo: “bisogna cambiare le regole di Dublin”), che viene subito compromesso, però, dalla finalità di depotenziare la gravità e urgenza di ciò che accade in quel momento. E così, nel corso degli anni, si sono spostate le sensibilità di tutti e, con le sensibilità, i limiti di quello che sembra accettabile o meno. Ugualmente, stiamo per abituarci alle notizie di violenza verbale, simbolica e fisica nei confronti di chi osa presentarsi un pubblico come ebreo o nei confronti della memoria della Shoah. Credo che la prima cosa alla quale ci esorta il testo di Ezechiele è di non abituarci, cioè a mantenere vivo il senso dello scandalo ordito dall’indifferenza, dal risentimento e dall’antisemitismo. Siamo invitati a non sviluppare un’assuefazione all’indifferenza e all’intolleranza, che sono i contorni principali che ci fanno diventare “dalla faccia dura e dal cuore ostinato”.

Rientra in questo quadro di indurimento socialmente accettato anche la svalutazione della gravità di quello che accade, accompagnata magari da un rigetto di principio. Di fronte agli eventi antisemitici, qualcuno penserà e dirà: “ma quelli che l’hanno fatto sono ragazzi, cresceranno”. No, dobbiamo ritrovare i modi per dire anche ai ragazzi e alle ragazze, a volte in realtà già assai progrediti negli anni, ciò che non va bene mai, né da soli, né in gruppo. Forse, un primo passo sarebbe che gli adulti smettessero di affermare “io non mi faccio dire nulla” e, forse, dobbiamo anche ragionare su come agire per evitare che il nostro interventi rafforzi soltanto i loro risentimenti, forse perché nel profondo quello che diciamo loro serve a noi per auto-giustificarci. Di fronte ai profughi, qualcuno dirà: “non ho nulla contro di loro, ma c’è la crisi”. Quale crisi? Che semina il risentimento, usa strumenti elettronici sofisticati impensabili 20 anni fa, paga il canone, ha una casa ben riscaldata per mettersi davanti al computer. Non dico che tutto vada bene, anzi, non andrà mai bene tutto. Ma l’indifferenza per la vita umana non ha mai giustificazione, e a noi, come società, è imposta un esame di coscienza sulla nostra ricchezza, collettiva e individuale a seconda delle condizioni in cui viviamo.

            Infine, chi si è opposto all’attitudine della faccia dura e del cuore ostinato è sempre stato tacciato di buonismo. D’altra parte, la difesa dello status quo e del proprio guscio non è mai stata di successo a medio termine, e non può esserlo, perché siamo mortali, come individui e anche come culture. Potrebbero le chiese diventare luoghi in cui liberarsi dall’illusione di potersi auto-conservare, luoghi in cui acquisire libertà proprio nella coscienza di essere tutti mortali, individualmente e culturalmente, luoghi in cui affrontare la vita con quella fiducia che apre i cuori invece di indurirli? In qualche modo, se le chiese dovessero riuscirci, sarebbe una grazia particolare e al tempo stesso un vissuto che onorerebbe la memoria del 17 febbraio.

Amen.

 

 


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