Il SIGNORE ti benedica e ti protegga!
Il SIGNORE faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio!
Il SIGNORE rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace! (Numeri 6:24-26)

Chiesa Evangelica Valdese

UNIONE DELLE CHIESE METODISTE E VALDESI

Rimini, Romagna e Pesaro-Urbino

Predicazione domenicale su Marco 1, 21-39 – Domenica 20 Settembre 2020 - Jonathan Benatti

L’allenatore ha chiesto un minuto di sospensione: time-out. Il pubblico nel frattempo è compresso in un catino da diecimila posti e sta scatenando una vera e propria onda sonora di tifo. Gli arbitri con le loro divise ordinate sono a centrocampo, con la palla in mano. I giocatori seduti in panchina, attenti alle parole degli allenatori; stanchi e sudati dopo quasi quarantotto minuti di gioco intenso. Il tabellone luminoso segna due secondi allo scadere. La differenza di punti indicata è di due punti in meno a sfavore della squadra di casa. Questa non è una partita qualsiasi: è la finale. Dopo una stagione incredibile ci si gioca tutto in questo istante. La situazione è disperata. Gli occhi di tutti, mentre il minuto di sospensione sta volgendo al termine, sono puntati sui giocatori e sugli allenatori. Le telecamere cercano di scrutare i volti, di cogliere le espressioni più significative. Le penne hanno appena finito di disegnare gli schemi: quello offensivo per la squadra che dovrà cercare di colmare lo svantaggio; quello difensivo per la squadra che dovrà invece evitare lo scoccare di un tiro. Le squadre rientrano in campo. Rimessa laterale. Due secondi. I giocatori cominciano a muoversi. C’è chi cerca di smarcarsi, chi blocca, chi si allontana per creare spazio o disorientamento; i difensori sembrano dei segugi: nervi a fior di pelle e massima attenzione. La palla entra in campo e finisce nella mani di chi non ti aspetti: non è la stella della squadra, il fuoriclasse, ma il fedele gregario. Allinea i piedi, spinge sulle gambe, carica il tiro mentre gli occhi cercano il contatto con il canestro: il tiro viene rilasciato. Suona la sirena qualche frazione di secondo dopo il distacco della palla dal palmo del tiratore. Il tiro, se dovesse entrare, sarebbe valido.

E il palazzetto si trasforma in un santuario.

Il tragitto che accompagna la palla verso il ferro diventa un momento di pura religione e preghiera. Il giocatore prega che il tiro entri perché la sua memoria non sia riconsegnata ai posteri come ricordo ingrato. Gli allenatori pregano per esiti opposti. Il difensore che ha concesso il tiro al proprio avversario prega. Pregano i presidenti che hanno investito milioni di euro, pregano i diecimila sugli spalti di assistere a un momento storico per la propria squadra, prega il pubblico a casa. Il palazzetto è un tempio: la casa è  diventata un luogo di preghiera, potremmo parafrasare. Il commentatore stesso ha appena detto, con un’espressione felice che il giocatore non ha tirato, ha lanciato una preghiera.

Cosa c’entra tutto questo con il testo di oggi? Molto.

Questo tipo di supplica “alla sirena” rappresenta spesso l’approccio di noi Cristiani alla preghiera: ricorriamo alla preghiera soltanto in determinati momenti di crisi, quando abbiamo finito i nostri schemi, le nostre possibilità e risorse. L’episodio che andremo oggi a meditare, invece, ci racconta qualcosa di diverso. È Gesù stesso che con il suo esempio ci insegnerà qualcosa riguardo al pregare.

Un giorno di normale amministrazione

Cafarnao. Cittadina di confine sulle acque del mar di Tiberiade. Non di certo la lussureggiante Corinto, non la celebre Efeso o la dotta Tarso. Un piccolo luogo brulicante di attività di pesca, non così insignificante da non avere una sinagoga. E’ sabato. Gesù e i suoi primi discepoli sono seduti in questo luogo di ritrovo e di ascolto. Gesù insegna.  Lo possiamo sentire: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo” (cfr. 1,15). Il Regno è così vicino che Dio stesso, in quest’uomo, è sceso nella periferia del mondo e compie meraviglie, spiegando e rispiegando la Sua Parola, portando cura e guarigione. Anche gli spiriti malvagi se ne rendono conto: qualcosa di nuovo e di definitivo è stato messo in moto. Un uomo posseduto da un demonio alza un grido: Che c’è fra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto per distruggerci? So chi tu sei: il Santo di Dio (1, 24).  Con la parola, la Parola vivente guarisce quest’uomo, così come con quella stessa parola Gesù calmerà il mare, guarirà altre donne e uomini incatenati in simili situazioni e getterà il seme del Regno di Dio nei cuori delle persone.

La giornata però non termina qui: sono solo gl’inizi. Usciti dalla Sinagoga, dopo un incontro piuttosto intenso, Gesù e i suoi discepoli si dirigono verso la casa di Simone e Andrea. Luogo noto: probabilmente nei paraggi della casa i due fratelli hanno ricevuto la loro chiamata (cfr. 1, 16-20). Il sabato è giorno di riposo, certo; anche di ascolto, certamente. Gesù però opera. La suocera di Pietro è afflitta da una febbre che la tiene a letto. Non sappiamo che malattia sia di preciso; sappiamo che febbre è un termine generico per indicare molte patologie (addirittura indicata come “fuoco nelle ossa”). Di certo non è una febbriciattola curabile con un decotto. La situazione viene presentata a Gesù e Gesù, dicevamo, opera. Entra nella stanza, tocca la donna con la sua mano e la donna viene curata: cessata la febbre, lei li serviva.

Una buona cena, preparata dalla suocera ora in forma sfavillante. Poi tutti a letto, la giornata è stata lunga: prima la sinagoga, poi la guarigione di un indemoniato, le prime folle curiose e acclamanti; poi la guarigione della suocera di Pietro; ci sono i presupposti per un po’ di riposo meritato. Sembra un ottimo programma per la serata.

Invece no: sul far della sera gli portavano tutti i malati e gl’indemoniati e tutta la città era radunata davanti alla porta (1, 32-33). Una folla di persone la cui vista evidentemente impressionò il narratore che si cela dietro alle parole del Vangelo di Marco; una folla di persone che mosse a compassione Gesù, il quale curò molti che erano colpiti da vari mali e cacciò molti demoni (1, 34).

Presto la mattina

Dopo una giornata così intensa e frenetica, potremmo dire a ragione una giornata “milanese”, è ancor più sorprendente quanto leggiamo: E la mattina presto, mentre era ancora buio, si alzò, uscì e andò in un luogo deserto e là pregava  (1,35).

Gesù si apparta. Un breve sonno ristoratore, una camminata verso l’aperta campagna, un luogo deserto: cioè silenzioso, lontano dalle folle e dai rumori.

Nel frattempo qualche discepolo, nel dormiveglia dell’alba, si accorge di qualcosa, o meglio di qualcuno mancante all’appello. Dove è andato Gesù? Che cosa starà facendo? Immaginiamo i discepoli perplessi. Un piccolo drappello, una vera e propria squadra di ricerca, si alza in maniera attenta, per non svegliare bambini e donne o altri famigliari; escono e scivolano di soppiatto tra la polvere e l’erba verso l’aperta campagna per cercare Gesù. Il sole sta sorgendo ed è quel preciso momento in cui la notte diventa una cupola scura nella sommità del cielo e l’orizzonte diventa una cinta di luce tenue e rosa.

Gesù viene finalmente trovato. Sta pregando. “Tutti ti cercano”, rimprovera qualcuno (e potremmo scommettere essere Pietro). “Siamo venuti a cercarti perché fin dalle prime ore del mattino si è creata di nuovo una notevole fila davanti a casa. Dove eri finito? Cosa fai qui, tutto solo? Come possiamo gestire tutto questo? Le persone chiedono di te!”.

La risposta di Gesù è mansueta: dolce, ma risoluta; saggia e piena di visione. Tutti aspetti che derivano dalla preghiera, cioè dalla relazione intima di Gesù con il Padre. Nessuna frenesia, nonostante un mondo frenetico fosse in attesa. Non apatia, ma partecipazione al mondo e al suo soffrire, alla sua complessità, ma con la sostanza di una comunione aperta e continua con Dio. “Andiamo altrove […] perché io predichi anche là, infatti sono uscito per questo (1, 38). Gesù stava dando un importante messaggio ai propri discepoli, un messaggio che ripeterà più volte nel suo ministero e che ripeterà nella notte più oscura della sua esistenza terrena. Nel giardino del Getsemani, quando il peso dell’angoscia e dell’imminente croce si faranno sentire, Gesù ripeterà a questi stessi discepoli: Sedete qui, mentre io pregherò (Marco 14, 32).

 

 

Imparare di nuovo la preghiera

In questo episodio troviamo un insegnamento sulla preghiera che il nostro Signore ci rivolge, a noi, discepoli del XXI secolo: Egli ridefinisce con il suo esempio e la Sua vita il nostro approccio alla preghiera. Per noi: noi che siamo così spesso abituati, in generale, a pregare soltanto in situazioni estreme (preghiera alla sirena o preghiera last minute), noi che spesso facciamo della preghiera un compito religioso (preghiera come rituale pio), noi che tramutiamo la preghiera in paganesimo (preghiera come superstizione).

Questo episodio ci ricorda con una forza inoppugnabile come la preghiera sia prima di tutto relazione. Anche solo uno sguardo superficiale alla vita di Gesù così come ce la raccontano i Vangeli, ci consente di dire che la preghiera, e dunque questa relazione continua tra Gesù e il Padre, fosse l’atmosfera stessa in cui si è svolta l’esistenza terrena di Gesù stesso. Non solo. Con grande meraviglia un autore di qualche anno più tardi ci ricorda che questa è ancora l’atmosfera in cui si manifesta e sussiste il rapporto tra Figlio e Padre che include anche noi. L’autore della lettera agli Ebrei infatti ci dice che Egli  [Gesù Cristo] vive sempre per intercedere in loro favore (Ebrei 7, 25). In questa relazione noi siamo inclusi per grazia e chiamati a prendere parte. Non abbiamo dunque soltanto un Dio che ci parla, ma un Dio a cui possiamo parlare e che ascolta le nostre parole. Questa relazionalità, che le Scritture indicano con diverse metafore estremamente intime come ad esempio il dialogare di due amici faccia a faccia, libera la nostra vita di preghiera dal suo essere sporadica e occasionale, invitandoci piuttosto a prendere parte a questa relazione d’amore e di cura. La preghiera è continuità, prolungamento di reciproca presenza nel corso della giornata e non l’ultima risorsa prima del baratro.

Di conseguenza, se la preghiera è relazione e dialogo, allora essa è anche il luogo di autenticità per noi e per Dio. Qui siamo faccia a faccia, senza veli: il Creatore e la sua creatura sono posti in una comunione speciale, in un rapporto dove il cuore di Dio, come Padre, Figlio e Spirito Santo incontra il nostro cuore: il tuo, il mio. Dio t’incontra dunque: nella tua cameretta, nel segreto del tuo cuore, nel nostro luogo deserto; metafora non di un isolamento ascetico, quanto di un maturo equilibrio tra solitudine con Dio e comunione con la famiglia di Dio, con il mondo. Qui, nella preghiera, io mi racconto. Racconto le mie speranze, i miei desideri, le mie paure; parlo di cosa amo e di chi amo, parlo delle nuove fasi della mia vita e di cosa grava sul mio cuore. Qui parlo delle mie relazioni, dei miei famigliari, di mia moglie, di mio marito, di mio figlio e di mia figlia, dei miei fratelli e sorelle, dei miei amici e amiche, del mondo che mi circonda. Qui conosco Dio. Qui ascolto la voce di Dio, perché nella preghiera accade che Egli mi ricorda la Sua parola, le Sue promesse: preghiera e parola sono intimamente connesse. Qui la sua presenza si rinnova e si fa viva: impalpabile talvolta e altre volte come se fosse fisicamente oggettivabile; qui Egli mi ricorda della Sua presenza, della Sua sollecitudine, della Sua cura. Qui mi ricorda che non è una presenza sporadica e occasionale, ma costante, sempre accessibile. Qui, in questo incontro, sono trasformato e così il mio modo di vivere nella realtà frenetica del mondo, nella quotidianità con tutta la sua grande complessità. Qui non vengo per svuotare la mente e raggiungere un’apatica ed egoistica “pace dei sensi”; qui vengo per essere colmato dei pensieri di Dio e delle promesse di Dio affinchè la mia vita sia partecipazione attiva al mondo, non fuga; affinchè io prenda parte alle sofferenze del mondo e alle sue speranze: come intercessore e come testimone; affinchè la mia attenzione al prossimo ricalchi, sebbene in modo imperfetto, l’attenzione stessa di Dio verso la Sua creazione.

Ecco! Questo episodio ci ricorda che la preghiera può essere liberata dalla deformazioni a cui l’abbiamo sottoposta: libera da ogni formalismo religioso o da ogni paganesimo più o meno esplicito. Non più il dovere di pregare, ma il piacere di pregare: piacere che deriva dall’essere chiamati e inclusi in una relazione d’amore da quel “forno ardente pieno d’amore” (Lutero) che è Dio. Non più uno spazio ricavato nel mezzo della nostra agenda (“ore 7:15 spazio per Gesù”), ma una comunione continua durante la giornata. Non più un Dio pensato come utensile sullo scaffale delle nostre vite, ma una matura dipendenza da Lui, dipendenza che riconosce che Lui è la linfa delle nostre vite. Non più parole retoriche, vuote, mantra ripetuti molte volte con il cuore assente, ma un dialogo vivente dove impariamo a pregare pregando, vivendo nella consapevolezza crescente che anche in questo Dio ci insegna, ci precede e sostiene.

A tutto questo non possiamo rispondere che con una preghiera:

proprio così, Signore, insegnaci a pregare. Amen.


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